35007 - 22:25 & 61:74 (2005); da Eindhoven, semplice psichedelia demodé ma che merita un ripasso.
AGNES OBEL – Beast (2010). Cantautrice danese (piano e voce) dallo straordinario successo in patria. Immaginabile delicatezza senza i patetismi che avvelenano il genere; buoni arpeggi al piano, che non é solo strumento di accompagnamento.
ALBERTA CROSS – The thief and the heartbreaker (2007). Band inglese dal rock chitarristico sentimentale, con due accordi due, ma bastano.
ALEXANDER TUCKER – Saddest summer (2006). Dal Kent arpeggi di chitarre acustiche che in genere accompagnano il canto: il risultato in questo strumentale però é più brillante.
ALPS – A manha na praia (2008); Onirica psichedelia californiana.
ANDREW BIRD – Two way action (2001) – Skin (2003) – Armchairs (2007) – Oh no (2008) – You woke me up (2009). Polistrumentista di Chicago che oscilla fra la canzone raffinata e brillantemente orchestrata e splendide composizioni cameristiche moderne, in cui si cimenta con il violino in strutture circolari a creare minimalismi ipnotici e voli vertiginosi ed involuti, quasi impossibilitati a staccarsi da terra per raggiungere la dimensione eterea cui aspirano (You woke me up).
ANNA CALVI – No more words (2011). Cantautrice italo-inglese in una canzone ricca di fascino decadente.
ARBOURETUM – Down by the fall line (2009); Ghost (2012). Vera moderna psichedelia da Baltimora. Ghost ha buona linea melodica, piglio rapido e una delle loro classiche derive psichedeliche, ipnotica ma meno monolitica del solito, con antenati fra i Velvet Underground di John Cale; Down by the fall line é invece (splendidamente) dalle parti di Jerry Garcia. Particolarmente apprezzabili nella dimensione live.
ASSEMBLE HEAD IN SUNBURST – End Under Down (2009). Leggera e banale melodia che si impreziosisce però di una iniezione stoner chitarristica.
BESNARD LAKES – And This Is What We Call Progress (2010). I coniugi Lakes dal Canada ed il loro romanticismo elettrico.
BIRDS OF PASSAGE – Fantastic frown (2011). Sigla propria della neozelandese Alicia Merz, melodia sussurrata, magica e favolistica.
BLACK MOUNTAIN – Druganaut (2005). Psichedelia canadese alle prese con un volenteroso ritmo ereditato dai CAN di Do You Right, più un buon esercizio minimalistico delle chitarre.
BLITZEN TRAPPER – Below the hurricane (2010). Country band da Portland, qui felicemente fuori genere con una melodia composita ed un’orchestrazione raffinata.
BODIES OF WATER – One Hand Loves the Other (2011). Da Los Angeles le cascate di note di Terry Riley, di quelle ottenute con la rotazione del polso in “a rainbow in a curved air”, con in più un canto di cui si sarebbe fatto a meno.
BODUF SONG – Oh Celebrate Your Vague Words And Coquettish Sovereignty (2005); Fiery The Angels Fell (2011). Sigla di Matt Sweet da Southampton, a suo agio con voce e chitarra, ma anche quando l’atmosfera si fa pulsante ed elettrica.
BONNIE PRINCE BILLY – Wolf among wolves (2003); My home is the sea (2005). Solo due canzoni per il pigro ma prolifico prince Will Oldham? Si, ma due capolavori che non vengono turbati troppo dallo stile casalingo ed anticommerciale che si ostina a seguire mister Palace (e Palace songs, Palace brothers, W. Oldham appunto, e poi Bonnie Prince Billy ecc, giusto per ridurre il pubblico ai soli affezionati).
Wolf among wolves si limita a chitarra e voce, naturalmente, con un intermezzo che avrebbe potuto essere strumentale, ma Will si accontenta di recitare la parte degli archi con vocalizzi in falsetto: i Pink Floyd di Wish you were here ne avrebbero fatto la loro bandiera. My home is the sea ha uno degli attacchi chitarristici più classici della musica rock; il resto della canzone é conseguente.
BOOKS - An Owl With Knees (2005). Il duo newyorkese si ricorda dai CAN: qui sono quelli meno preziosi di “Unlimited edition” ma arricchiti da sobrie evoluzioni ritmiche minimaliste.
BUILT TO SPILL – Car (1994); I would hurt a fly (1997); The host (2001); Gone (2006).
Dough Martsch dall’Idaho, canzoni psichedeliche memori della pasticceria sixties britannica ma dallo stile chitarristico che oltre che nel Dave Gilmour fra Ummagumma e Athom heart mother (Gone) trova riferimenti nobili negli antenati americani (Randy California degli Spirit).
CARIBOU – Barnow (2005). Daniel Snaith dal Canada rilegge i CAN di Ege bamyasi con grazia e leggerezza e (quasi) la stessa presa emotiva: non un semplice esercizio di stile.
CASTANETS – Song Is Not the Song of the World (2005); Lucky old moon (2009). While Raposa dalla natia California agli spazi aperti dell’Oregon: intimismo e respiro cosmico, elettronica e ballata rurale; fascino assoluto.
CAUSA SUI – Red sun in june (2009). Classica psichedelia chitarristica dalla Danimarca, con tanto di inizio tenue (alla Grateful Dead) e crescendo in distorsione stoner.
CITAY – Careful with that hat (2010); Secret breakfast (2010). Neoclassicismo (…rock) a San Francisco.
CLOUDKICKER - Genesis device (2008); Explore, be curious (2011). Terrorismo sonico e romanticismo minimalista, dall’americano Ben Sharp.
CONNAN MOCKASIN – Forever dolphin love (2011). Il neozalandese Connan esprime una delle proposte più originali ed innovative: sghemba e geometerica, vaga e metronomica, forever dolphin love esprime la summa di una sinfonia insieme patetica ed eroica.
CORAL – Far from the crowd (2005); She sing the mourning (2005). Da Liverpool ritmi che sono un dichiarato omaggio a Jake Liebezeit, ma dei Can non c’é la complessità compositiva, le melodie sorprendenti, né altro.
DAN DEACON – Surprise Stefani (2009). Do do wap su tappeto ritmico ed elettronico minimalista da Long Island.
DARKER MY LOVE – Wake (2006); All the Hurry & wait (2008). Psichedelici californiani che sembrano sempre sul punto di regalare il capolavoro ma rimangono ben al di qua del memorabile.
DATSUNS – Stud here for days (2006). Slide guitar e tradizione dalla Nuova Zelanda.
DEAD WEATHER – You just can’t win (2009); Rocking horse (2009). Mister “Seven nation army” Jack White accompagnato da un buon gruppo: nonostante il materiale sia meno pregevole di quello speso nei White Stripes, la completezza degli arrangiamenti (come già nei Raconteurs) genera rimpianti per gli striminziti 2-3 minuti chitarra-batteria con Meg White: ci siamo persi i nuovi Led Zeppelin…
DEVENDRA BANHART- Now that I know (2005). Riuscita tenue canzone del californiano, che ne imbrocca qualcuna anche con i Vetiver.
DEVICS - The way you sleep (1996); Blood red orange (2001); Just one breath (2006); teneri, raffinati losangelini fra nenie e caffè chantant, con misurati brividi elettrici.
DEXATEENS– Diamond in the concrete (2005); The ballad of souls departed (2009); da Tuscaloosa, Alabama! Superfluo descrivere il genere, ma the ballad of souls departed aggiunge emozioni desertiche al loro prevedibile ma brillante rock and roll.
DIRTY PROJECTORS– Offspring are blank (2012); moniker di Dave Longstreth, giovane del Connecticut; gospel del XXI secolo esaltato da rasoiate di chitarra.
DIRTY THREE– Hope (1996); the restless wave (1998); Down by the river (cover di Neil Young con i Low, 1999); Sue’s last ride (2000); Alice wading (2003); Ever since (2005); Australiani di Melbourne, costituiscono una delle migliori proposte del rock moderno, nonostante (o forse anche perchè) non usino alcun artificio di studio ma suonino i propri strumenti, con una perfetta miscela fra violino, flauto, batteria, chitarre acustiche e strumenti elettrici; spesso le loro registrazioni sembrano live in studio più che misurate esecuzioni, come in Sue’s last ride e la sua esaltante cavalcata finale o nella cover di Down by the river, dove insieme ai Low nobilitano oltre misura la canzoncina di Neil Young. I toni sono spesso intimisti o addirittura disperati (Hope é il lamento straziato di chi soffre tutti i dolori del mondo): facciano attenzione i cuori teneri.
DJ SHADOW– fixed incomed (2009); l’americano Joshua Paul Davis con un ritmato esercizio di elettronica e campionamenti.
DM STITH– Pity dance (2009); suoni intensi ed epici, coro ed arpeggi di chitarra che rotolano inesorabilmente a valle per il newyorkese David Michael Stith.
ESPERS– Riding (2003); Blue mountain (2006); romanticismo psichedelico da Filadelfia con forti legami con la tradizione folk più Inglese (Fairport Convention) che americana.
FILM SCHOOL– 11 (2006); metronomico e circolare esercizio new wave dalla California.
FIREBIRD– Bow bells (2006); I whish you well (2006); Lonel road (2009); Bow Bells ha un incipit slide classico, desertico, che può illustrare la copertina della storia del rock. Il britannico Bill Steer dimentica i trascorsi grindcore con Napalm Death e Carcass e ci regala il migliore tradizionale rock chitarristico degli ultimi decenni.
FISCHERSPOONER - O (2005); da New York elettronica con reminescenze di Kraftwerk e Terry Riley.
FLAMING LIPS– Hold your head (1992); Pompei am Gotterdamerung (2006); Convinced of the hex (2009); The sparrow looks up at the machine (2009); Powerless (2009); I found a star in the ground (2001); di Wayne Coyne, da Oklahoma city, sono i campioni assoluti della psichedelia moderna. Anticommerciali e dispersivi, é necessaria una cernita nella loro composita ed a volte folle produzione (vedi l’ultima “24 hours song”). Hold your head, eterea e circolare, è l’esercizio di stile più pulito; ancora più vicini, e dichiaratamente, ai Pink Floyd in Pompei am Gotterdamerung, che é come i londinesi sixties avrebbero dovuto suonare One of these days; altra passione dichiarata, le melodie di Neil Young innestate però su ritmiche complesse ed irregolari; I found a star on the ground è una suite minimalista di 6 ore accompagnata da un potente ritmo di batucada che bisogna trovare il tempo di ascoltare: i più pigri assaggino almeno i primi 25 minuti. Presso Wayne ha studiato Jonathan Donahue – Mercury Rev, il quale però ha capitalizzato molto meglio.
FOLLAKZOID– Trees (2013); 99 (2013); Cile cosmico! Dalla ripetitività ossessiva dei Neu ai Gong meno naif, quelli di You.
FRANZ FERDINAND– Jaqueline (2004); Eleanor put your boots on (2005); canzoncine scozzesi che non mancano di grazia e di qualche impennata elettrica.
FUZZY LIGHT– Through water (2010); nella tradizione crooner di Leonard Cohen e Nick Cave, ma sorprende la complessità degli inserti strumentali elettrici dei coniugi Watkins da Cambridge.
GRAVENHURST– Song from under the arches (2005); Nick Talbot da Bristol con le classiche alternanze fra quiete sonnolenta e tempeste elettriche
HEAVY TRASH– Lover street (2010); Jon Spencer approda al nuovo secolo con altra sigla ma è sempre il più newyorkese rock and roll blues .
HOLLY GOLIGHTLY– Wherever you werw (2000); Any other way (2001); The luckiest girl (2006); sensuale e sixties, la londinese da club fumosi e nostalgici, con arrangiamenti leggeri e percussioni frenate, chitarra ritmica con tanto di vibrato e pochi tocchi di tastiere vintage, regala in una discografia sterminata un po’ di perle, su tutte Wherever you were.
HOLY FUCK– Grease fire (2010); gli incazzati di Toronto, con qualche nuvola emotiva che percorre un’elettronica monolitica accompagnata da batteria altrettanto granitica.
HOWE GELB– But i did not (2006); dall’Arizona dei Giant Sand e degli OP8 Howe passa al terzo millennio con più marcate suggestioni western: ritmo che è l’eterno sferragliare di un treno, chitarra che ha fretta di arrivare e spazzole sul rullante ad accompagnare una bella canzone.
HOWLIN’ RAIN– In sand and dirt (2006); trascinata ed intensa, pesante da trovare difficoltà a segnare il tempo, il lato oscuro di San Francisco.
I LOVE YOU BUT I’VE CHOSEN DARKNESS– Fear is on our side (2006); dal sentimentalismo insolito per il Texas di Austin (Pain teens…) un breve, intenso, pulsante e romantico strumentale.
IN GOWAN RING– Aurora (2005); dall’Oregon un raro tuffo nel passato del progressive acustico inglese.
INGE THOMSON– Cradle song (2010); vocina in falsetto,”piano accordion”, campanellini e dolci melodie dalla Scozia.
IRON & WINEwhit CALEXICO– Red dust (2005); Burn that broken bed (2005); ferro, vino, ma per infondere un po’ di sangue e vita al cantautore americano Samuel Beam servono i Calexico, col loro più classico tex-mex.
JAMES BLACKSHAW– The cloud of unknowing (2007); chitarrista acustico inglese che si ispira nei suoi solo album alla tradizione americana di Robbie Basho e John Fahey piuttosto che a quella inglese di Bert Jansch.
JESSE SYKES & THE SWEET HEREAFTER– Like love lust (2007); Instrumental (2011); la chitarrista e cantante Jesse da Seattle con l’altro chitarrista Phil Wandsher; rock elettrico, psichedelico, nella grande tradizione americana, soprattutto quando riesce a fare a meno dell’eccesso di sentimentalismo.
JOHN GRANT– I wanna go to marz (2010); canto tenue dall’arrangiamento discreto e delicato, il cantautore di Denver dalla carriera sfortunata viene finalmente aiutato dai Midlake che lo accompagnano in studio (dopo che lui li aveva supportati in tour).
JOKER’S DAUGHTER– Jesse the goat (2009); ancora una voce,quella della anglo-greca Helena Costas, conturbante ed infantile, che ricorda Hope Sandoval (Mazzy star) il che però è il pregio maggiore di questa tenue canzone.
JONATHAN WILSON– Desert raven (2011); Natural rhapsody (2011); Valley of the silver moon (2011); forse l’unica grande uscita degli ultimi anni, l’intero album si ispira al migliore rock dell’epoca d’oro ‘68 – ‘71 ma il geniale lungocrinito della North Carolina non si è confermato con i lavori successivi, distratto dalla sua perizia come produttore, al punto da trattare anche il suo lavoro successivo come un prodottino sterile da easy listening. Per intanto “Gentle spirit” entra nella storia del rock con i suoi sapori Byrds/Crosby e la psichedelica e composita Valley of the silver moon, autentico capolavoro del genere; come poche volte accade, non un prodotto di genere per nostalgici ma un’opera che brilla di valore suo, da porre sugli scaffali subito dopo “if a could only remember my name”.
JULIE’S AIRCUT– Sator (2013); da Sassuolo una versione gentile dei Neu!
KASHMIR – She’s made of chalk (2005); spedito, lirico ed onirico rock dalla Danimarca.
LILIUM– One bear whit me (2010); il francese Pascal Humbert si è perso a Denver, dove è supportato da membri di Wovenhand e Sixteen Horsepower: tradizione roots con chitarre indolenti ed elettricità diffusa sullo sfondo.
MAGIC LANTERN– On the dime (2010); psichedelia californiana con intensità Hawkwind.
MANDO DIAO– Added family (2005); splendida canzone in una discografia altrimenti scialba, gli svedesi trovano tono decadente e ritornello antemico, coretto soul e buona produzione.
MARK MCGUIRE– Clouds rolling in (2010); da Cleveland un perfetto seguace dei solo guitar di Manuel Gottsching: nonostante l’evoluzione tecnologica dei 35 anni nel frattempo trascorsi, sembra di sentire ancora il 4 piste del chitarrista degli Ash ra tempel.
MARS VOLTA– Miranda, that ghost just isn’t holy anymore (2005); The widow (2005); Dumb waiters (2006); Vishera eyes (2006); Agadez (2008); Mars volta o la maturità rock agli albori del III millennio. Messicani più gringos ad El Paso,Texas, lasciano il “post-hardcore” del gruppo di origine, gli At the drive in, ricordandosi comunque sempre dell’energia e delle asperità del metal, del suo espressionismo romantico, per abbracciare una visione sonica universale: dal rumorismo di Miranda, i cui fasci sonori stellari sono risolti in un canto lirico di tromba da mariachi ed una canzone da serenata senza speranze, con dispersione cosmica dei rumori finali, ad approcci più tradizionali; con le loro epiche melodie ed i ritmi frenetici sembrano non trascurare alcun elemento dello scibile sonoro.
MELVINS– The ballad of Dwight Frye (1992); Going blind (1993); Hooch (1993); Lizzy (1993);
At the stake (2000); Let it all be (2000);The anti-vermin seed (2002); Dog island (2008); a cavallo fra i due secoli, li rappresentano entrambi con la loro versione della maturità del metal: dai temi Sabbathiani (Going blind) alla maturità ferocemente minimalista, cui non è estranea la lezione ossessiva di Big Black-Steve Albini (esemplare The anti-vermin seed, che merita un ascolto attento: mai il rock è stato più lontano dalla musica da sottofondo ed intrattenimento), passando per mille episodi anche melodicamente riusciti; le strutture armoniche del trio di Washington non si limitano ad accompagnare il classico riff di chitarra ma sono la palestra per una meditata ricerca timbrica,per una a volte estenuante ma esaltante progressione minimalista.
MEN WHITOUT PANTS– And the girls go (2009); allegro e tirato riff chitarristico per il garage rock del batterista di Jon Spencer.
MERCURY REV– Chasing a bee (1991); Frittering (1991); Boys peel out 1993); The funny bird (1998); The dark is rising (2001); Chains (2001); Lincoln’s eyes (2001); Black forest (lorelei) (2005); Diamonds (2005); Secret for a song (2005); primi due album da legittimi eredi dei migliori Pink Floyd, quelli ancora illuminati dal genio di Syd Barret, ma senza alcuna tentazione imitativa: i lavori 91-93 sono psichedelia onirica, rumorosa, chitarre, elettronica e flauto a fondersi in torrenziali quadretti psichedelici che devono molto alla scuola di Wayne Coyne (Flaming Lips) a cui Fridmann, anche produttore, e Donahue si sono formati.
L’avventura psichedelica dura due album, poi il cantante David Baker lascia e Jonathan Donahue approfitta della timbrica vocale vicina a Neil Young per impostare il canto alla maniera del canadese ma con arrangiamenti orchestrali lussureggianti e temi epici che consentiranno al gruppo di Buffalo di esprimere i propri capolavori.
MICK HARVEY– Come on spring (2005); in libera uscita dai Bad Seeds, l’australiano sodale di Nick Cave mantiene la leggerezza ed effervescenza ritmica dei Bad Seeds maturi.
MOON DUO– Ripples (2009); Sparks (2012); sui continuum di Loop ed i ritmi freddi di Spacemen 3, ma a differenza degli inglesi il duo californiano ha un migliore approccio strumentale figlio della psichedelia chitarristica west coast.
MUGGS– Underway (2005); da Detroit ritmo arioso e chitarre più’ liriche e psichedeliche di quelle cui ci ha abituati la MotorCity.
MI AMI– Dreamers (2010); chitarre srotolate su un tappeto percussivo che sarebbe piaciuto a Santana; è l’unica analogia però con questi poliedrici californiani.
MY MORNING JACKET– Off the record (2005); una delle loro solite sciape canzoncine, ma i 5 del Kentucky dallaseconda metà di questa canzone liberano una ispirata vena psichedelica,un po’ come i Rolling Stones in “2000 light years from home”.
NASHVILLE PUSSY– Hate and whiskey (2005); le fighe di Nashville; fiumi di alcool, caotici locali fumosi, tacchi di stivali che portano il tempo sulle tavole del palco: che altro? Gli AC/DC più bluesy ed incazzati.
NERVOUS CABARET– Alone together (2006); canto strascicato da crooner ubriaco, chitarre e fiati solidali in depressione alcoolica, un lirismo sincero per una canzone eccentrica da New York.
NINE INCH NAILS– Even deeper (1999); Where is everybody (1999); The wretched (1999); Sunspots (2005); Trent Reznor da Cleveland, fra i più cattivi del lotto: atmosfere dub, campionamenti, elettronica, ritmi tesi e meditati, improvvise e profonde rasoiate di chitarra (cfr. la potenza pura di “The Wretched”).
ONEIDA– Spirits (2005); elettronica e psichedelia a Brooklin, il più delle volte velleitaria e superficiale. “Spirits” invece mantiene la sarabanda ritmica ed il disordine strumentale in un percorso più organico.
OXBOW– Insane asylum (2006); dove l’insania esprime più ragione. Eugene Robinson da San Francisco, muscoloso omone dal canto sofferto fino al falsetto (più spiazzante di Bob Hite), violenza blues su due toni di batteria da intrattenimento drammatico, orchestrazione rumorista ben meditata e tutt’altro che casuale per un tornado di violenza.
PAST LIVES– Paralizer (2010); Seattle, ritmo da Neu! E martellamento del basso come piaceva ai Joy Division.
PATRICK WATSON– Daydreamer (2006); da Montreal un quadretto naif nella lingua già usata dai Pram. Un piano romantico con spigoli da film horror, un vortice delicato di canto, chitarre hawaiane, banjo, batteria delicata e pulsante; un sogno pronto a sconfinare in un incubo di Tim Burton.
PETRA JEAN PHILLIPSON- One day (2005); tenue canzone nelle corde di Joni Mitchell in quel di Brighton.
PINBACK– Hurley (2000); B (2003); Byzantine (2006); arriva a San Diego l’onda lunga degli Slint negli arpeggi di chitarra da cameretta ma con più brio ritmico e pathos rispetto all’ampia concorrenza.
PONTIAK– How tall are you (2006); Aestival (2009); Seminal shining (2009); The north coast (2012); fra Virginia e Baltimora, le stesse strutture armoniche dilatate e gli stessi tempi pazienti degli Arbouretum, le stesse pennellate di chitarra per una psichedelia moderna che i due gruppi stanno costruendo insieme (anche con la collaborazione nello split “Kale”), i Pontiak con più dinamica nell’intensità sonora e meno riferimenti “storici”.
PROJECT PITCHFORK– Odyssee (2003); The touch (2005); moderna elettronica da Amburgo, più vicina alla dance che ai decenni “cosmici” (Odyssee), ma indulgono anche in cattiverie chitarristiche ‘a la Nine Inch Nails (i toni anthemici di The touch).
RACONTEURS– Level (2006); Steady as she goes (2006); far rivivere i Led Zeppelin senza imitarli, nè nel canto di Robert Plant nè nella chitarra di Jimmy Page, ma piuttosto compenetrandone l’essenza armonica ed il respiro seventies (Level) ed insieme ricordarsi di White Stripes: signori, Jack White.
RADAR BROS– Stay (1996); The river shade (2005); la Los Angeles sentimentale di Jim Putnam: più cura melodica e addio al fuzz noise chitarristico del precedente gruppo dei Medicine.
RADIO MOSCOW– 250 miles; psichedelia hendrixiana dallo Iowa (nelle attitudini, certo non nel virtuosismo chitarristico).
RAKES– We are animals (2005); riff chitarristico irresistibile per una canzoncina scialba a la Clash.
RAMONA FALLS- The darkest day (2009); sofisticata orchestrazione per la psichedelia fantasiosa dedicata alle cascate dell’Oregon.
RAY LA MONTAGNE- Lavender (2014); nostalgica psichedelia dal sapore più che americano dal chitarrista del New Hampshire.
RPWL– Sleep (2005); tablas indiane, ritmo in levare e rasoiata di chitarra compensano la melodia debole del gruppo tedesco, che non si è mai ripetuto.
SECRET MACHINES– What used to be french (2002); Daddy’s in the doldrums (2006); arpeggi tenui di chitarra aggrappati ad una batteria elementare ed a volte invadente; poi il ritmo riprende quello di Meddle (Pink Floyd) e le chitarre danno segno di risveglio. Texani acidi ma ordinati.
SIX ORGANS OF ADMITTANCE– Close to the sky (2012); spesse coloriture di chitarra di Ben Chasny, anche nei Comets On Fire.
STEVE GUNN– New decline (2013); nella tradizione chitarristica americana di John Fahey e Robbie Basho ma senza rinunciare alla ritmica ed a puntate alla chitarra elettrica.
STROKES - Juice box (2005); riff ben riuscito fra le poche cose da ricordare dei Newyorkesi già salutati come ennesima next big thing che non ha avuto sviluppi.
TINARIWEN– Toumast tincha (2014); sonorità’ desertiche, ma non siamo in Texas, piuttosto nel Sahara del Mali; fra chitarre elettriche e strumenti tradizionali.
VOICE OF THE SEVEN THUNDER– Kommune (2010); The bourning mountain (2010); inglesi che si ricordano degli Amon Duul II, in particolare di quelli concreti ed elettrici del “Live in London”, e degli Hawkwind.
WHITE DENIM– Let’s talk about it (2008); riff sventagliato di chitarra acida ed incespicamenti minimalistici; da Austin-Texas.
WOODEN SHJIPS- Motorbike (2009); psichedelia come la praticavano gli Opal (altri californiani) 20 anni prima: insomma… da Ripley Johnson, anche nei Moon Duo.
WOODS- Cascade (2012); chitarre rotolanti, disordinate suggestioni psichedeliche ancora dalla California.
XX– Cristalised (2009); da Londra melodia soffusa e chitarre che alternano modestia e voglia di svegliarsi.
YAMANTAKA– Oak of Guernica (2001); ancora un gruppo aperto dal Canada (dopo Godspeed you! black emperor, Silver mt. zion) ed ancora con le stesse atmosfere dilatate, oniriche e rumorose.
Nicola Lembo